Se questo è un genio
Rothko è l'artista più sopravvalutato di tutti i tempi. Ora capisco perché è così faticoso trovare le sue opere tutte insieme. Quando vedi la prima, pensi che Rothko sia un dannato genio. Quando vedi la seconda, pensi che Rothko sia sì un genio, ma un po' ripetitivo. Quando vedi la terza pensi che genio è una parola grossa. Quando vedi la settima inizi a pensare che anche una sua eventuale carriera da imbianchino non sarebbe stata poi così soddisfacente. La mia visita alla mostra su Rothko è durata otto minuti, i primi cinque passati a guardarmi intorno, i successivi tre a cercare la via più breve per uscire dalla sala. Poi è questione di gusti, io (per dire) sono una groupie di quello squilibrato di Pollock, ma tant'è.
Così corro fuori e cerco quella sala là, quella dei minimalisti. Ah, finalmente senso. Una forma geometrica bianca schizzata su un muro bianco. Un'enorme scritta al neon. I miei neuroni iniziano a mettersi in moto, cercando senso. Un viaggio nello spazio distorto di LeWitt e l'approdo sull'isola delle parole, quel miscuglio di concreto e irreale che solo un allenato Holzer può mettere insieme. Parole e colori, colori e forme geometriche, forme geometriche e lettere. Regole, solo regole. Queste composizioni sono pregne di regole, sono rette da regole, sono la sistematizzazione delle regole. E dalle regole si passa ai principi strutturali. Adoro la regolarità, soprattutto quando si fa forma, la forma ingloba lo spazio nella figura e la figura diventa una vuota portatrice di senso, restituendo all'osservatore il suo mondo. O inglobando il mondo dell'osservatore. O facendo diventare l'osservatore l'oggetto stesso dell'osservazione. Ma negando se stessa l'opera ritorna a essere opera, rigettando l'osservatore stordito e confuso nel suo stesso mondo.
Allora si smette di giocare con lo spazio e si torna a guardare i quadri alle pareti. Datemi una dose di cubismo, per favore, sono in astinenza da settimane. Sbattetemi in faccia un Picasso, datemi un cucchiaio di Balla. Il mio problema coi cubisti è che mi danno appetito, ma poi mi ingozzo a tal punto da non riuscire più a distinguere i sapori, rincorro le sagome abbozzate senza avere il tempo di assaporare, o di riflettere.
E poi solo altre tre parole. Pop. Art. Yo. Un Rauschemberg che ammicca a un Lichtenstein che cede il passo a un Johns. Basta, credo che questo sia il momento giusto per uscire, non credo di poter andare oltre. E invece un passo avanti e un Matisse sta lì a fissarmi, e in mezzo a due Bonnard chi mi ritrovo? L'Ave Maria di Cattelan. No, dico, che ci fa Cattelan in una sala che si chiama "Dopo l'impressionismo"? Sospensione dell'incredulità, perché lì di fianco trovo un Mondrian inedito e in ottima forma.
Ecco, sapevo che non avrei retto più di un'ora. Mi trascino fuori dopo un'ora e un quarto sfinita. Consumata. Respiro. Datemi una secchiata in faccia di Real Life, please.
(tutto questo è ovviamente il frutto della seconda spedizione punitiva alla Tate Modern, come avevi già capito)