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12 settembre 2009

Vorrei iniziare con una riflessione sul marketing post-moderno

Ma oramai lo faccio ogni volta. Quindi parliamo d'altro.


Un breve accenno -necessario e indispensabile come il sale nell'acqua della pasta- è per gli amici ritrovati un po' qui e un po' là, sotto la pioggerella estiva che sorprendeva bagnanti e barcampisti e sotto la pioggerella estiva che sorprendeva festeggiata e festeggianti.

(Forse porto un po' sfiga.)

Ho qui un post tra le bozze da così tanto tempo che se aspetto ancora un po' impara a cliccare da solo su publish. Il post risale a qualche mese fa, quando ancora non avevo esperito il mite clima estivo milanese e quando il mio equilibrio mentale era... vabé, insomma, è da un po'.

La riflessione nasceva là in quell'edificio estraneo ma dal nome familiare. Così affezionata alle sale della più rassicurante Modern, con la lounge dalla quale si abbraccia Saint Paul, recarmi a passo deciso verso la più classica Britain è stata una prova di forza. Ho un'attenuante che userò come scudo concettuale: a trascinarmi fin là è stata Altermodern (ma soprattutto il suo sottotitolo, postmodernism is dead).

Della quale non parlerò.

Parlerò invece di un argomento inedito e inaspettato, ovvero del mio incontro con Turner.

No, non in persona. Io sono ancora viva, o così almeno conferma l'anagrafe.

Parlerò di Turner e di quanto Turner mi faccia tenerezza. Ma parlerò anche di Rothko, come sempre male. D'altra parte che non ci siamo mai piaciuti è ormai sulla bocca di tutti ed è riconducibile a un vecchio (e per fortuna subito riparato) errore di gioventù.

In compenso amo Turner. Turner è a suo modo un po' genio, un po' scienziato e molto autodidatta. Sperimenta, ama, distrugge. Assolutamente adorabile.

Certo è che qualche problemino lo ha avuto, per esempio ha convissuto con un problema di sicuro terribile, disimparare nel tempo a dipingere figure umane. Deve essere stata dura. Turner aveva anche un po' il problema della nebbia, me lo vedo strizzare gli occhietti cercando di capirci qualcosa e alla fine dipingere un po' a cazzo e quello che viene viene. Ma in fondo Turner è tenero: figurativo, un po' schizofrenico e mezzo dark. Già me lo vedo nella sua intimità, con il pantalone sceso e il panama al contrario, mentre guarda la tela col broncio e regge con la stessa mano birra e pennello. Per queste e altre ragioni che non sto a sviluppare in questa sede ritengo che Turner sia il mio simpatico creativo emo preferito.

In compenso, a rovinare questo idillio, in una delle sale erano appese una crosta di Turner e una di Rothko. Ma dico, sono qui che faccio i cuoricini nelle tele di Turner e improvvisamente inciampo in quell'altro. In compenso, anche Rothko ammirava Turner, al punto di aver regalato alla Tate alcuni dei suoi murales. La prima volta che Rothko vide alcune opere di Turner al Moma, con la sua solita modestia, dicharò: This guy Turner, he learnt a lot from me.

Ma basta parlare di Turner, parliamo di me.

Come alimento prossimamente a Milano la mia fame artistica?

08 aprile 2009

L'artista degli opposti

E ci risiamo, tanti post in bozza e invece decido di seguire il flusso e parlare di altro.


Ieri ho incontrato Roni Horn. Cioè, non lei in persona, ma lei attraverso le sue opere. Roni Horn non la conoscevo e non l'avrei conosciuta se non fossi passata davanti alla Tate Modern giusto in tempo per rendermi conto che c'era una seconda temporanea a fianco a quella maggiormente pubblicizzata sul costruttivismo di Rodchenko e Popova.

Ora, io con i contemporanei ho un problema, mi presento sempre impreparata. La maggior parte della mia esperienza con le opere d'arte avviene così, una visione di impatto, senza fronzoli né opinioni, solo io e quello che mi sta davanti. Le prime sale mi servono per contestualizzare e per definire una mia mappa, per trovare agganci, connessioni, differenze, per ridefinire la realtà con nuovi presupposti. Va da sé che l'esperienza è totale, ma ha i suoi lati negativi: perdo un sacco di dettagli che, a saperlo prima, col cacchio che sarei passata oltre con quello stupido sguardo di sufficienza.

Con Roni Horn ci ho messo un po', non capivo la decontestualizzazione dei suoi disegni, non capivo su cosa ragionava, non capivo cosa stava cercando di dirmi. Ci ho messo otto sale per capire perché me ne stavo lì a girovagare per le opere senza afferrare niente di quello che mi passava per la testa. E' stato proprio lì, nella sala otto, che ho trovato il mio percorso.
Acqua. Solo acqua. Solo acqua del Tamigi, replicata più volte, acqua nera, acqua increspata, acqua agitata, acqua traforata da altra acqua che cade. E centinaia di note, trentacinque o quaranta per ogni foto, che spezzano la continuità, che creano movimento, che ti chiamano in causa e ti invitano a ragionare. Ho trovato la chiave. Tutte le opere racchiudono in sé il proprio significato e il significato opposto, le sculture sono lucide e opache, trasparenti e impenetrabili, i disegni sono unitari e decomposti, le immagini rappresentano animato e inanimato, azione e immobilità, familiarità e ignoto. Roni Horn è l'artista degli opposti, lavora con te per portarti distante da te.

Poi ci sono anche altre considerazioni, tutte quelle contenute nella guida all'ingresso, che mi costringeranno a rivedere la mostra. Ma la mia intimità con quelle opere è nata da un lavoro solitario, impreciso, approssimativo, emotivo. E credo sia proprio una questione di emozione, uscire dalle sale con questo senso di leggerezza, sapendo di aver trovato l'ennesimo nuovo eccitante punto di vista da cui guardare la realtà.

11 febbraio 2009

Quando il fisico si riposa anche il cervello va in tilt

Oggi ho corso (applausi) (ssshh). Per stabilire se la mia relazione con la corsa può avere un futuro ho deciso di fare il classico schema dei pro e contro.

contro - ho corso solo 15 minuti
pro - ho corso!
pro - pioveva e stava facendo buio
contro - avevo l'outfit nuovo da provare
pro - dopo aver corso mi parte il voglino di fare due addominali
contro - ho fatto solo quattro minuti
pro - ci metto solo un mese di attività costante perché l'addominale si veda
contro - ci metto un mese di attività costante perché l'addomninale si veda
pro - dopo gli addominali sei lì sdraiata a terra, che fai, un paio di flessioni non le vogliamo fare?
contro - ho dovuto usare gli esercizi semplificati
pro - e dopo due flessioni, mentre sei lì che ti riprendi, due esercizi per i glutei vuoi che non ci stiano?
contro - prendere consapevolezza di quanto il fisico non regga la buona volontà
pro - ho cominciato, via

7 a 6. Bene, da domani si riparte.

(odio mettere in atto i buoni propositi per l'anno nuovo)

29 gennaio 2009

Se questo è un genio

Rothko è l'artista più sopravvalutato di tutti i tempi. Ora capisco perché è così faticoso trovare le sue opere tutte insieme. Quando vedi la prima, pensi che Rothko sia un dannato genio. Quando vedi la seconda, pensi che Rothko sia sì un genio, ma un po' ripetitivo. Quando vedi la terza pensi che genio è una parola grossa. Quando vedi la settima inizi a pensare che anche una sua eventuale carriera da imbianchino non sarebbe stata poi così soddisfacente. La mia visita alla mostra su Rothko è durata otto minuti, i primi cinque passati a guardarmi intorno, i successivi tre a cercare la via più breve per uscire dalla sala. Poi è questione di gusti, io (per dire) sono una groupie di quello squilibrato di Pollock, ma tant'è.

Così corro fuori e cerco quella sala là, quella dei minimalisti. Ah, finalmente senso. Una forma geometrica bianca schizzata su un muro bianco. Un'enorme scritta al neon. I miei neuroni iniziano a mettersi in moto, cercando senso. Un viaggio nello spazio distorto di LeWitt e l'approdo sull'isola delle parole, quel miscuglio di concreto e irreale che solo un allenato Holzer può mettere insieme. Parole e colori, colori e forme geometriche, forme geometriche e lettere. Regole, solo regole. Queste composizioni sono pregne di regole, sono rette da regole, sono la sistematizzazione delle regole. E dalle regole si passa ai principi strutturali. Adoro la regolarità, soprattutto quando si fa forma, la forma ingloba lo spazio nella figura e la figura diventa una vuota portatrice di senso, restituendo all'osservatore il suo mondo. O inglobando il mondo dell'osservatore. O facendo diventare l'osservatore l'oggetto stesso dell'osservazione. Ma negando se stessa l'opera ritorna a essere opera, rigettando l'osservatore stordito e confuso nel suo stesso mondo.

Allora si smette di giocare con lo spazio e si torna a guardare i quadri alle pareti. Datemi una dose di cubismo, per favore, sono in astinenza da settimane. Sbattetemi in faccia un Picasso, datemi un cucchiaio di Balla. Il mio problema coi cubisti è che mi danno appetito, ma poi mi ingozzo a tal punto da non riuscire più a distinguere i sapori, rincorro le sagome abbozzate senza avere il tempo di assaporare, o di riflettere.

E poi solo altre tre parole. Pop. Art. Yo. Un Rauschemberg che ammicca a un Lichtenstein che cede il passo a un Johns. Basta, credo che questo sia il momento giusto per uscire, non credo di poter andare oltre. E invece un passo avanti e un Matisse sta lì a fissarmi, e in mezzo a due Bonnard chi mi ritrovo? L'Ave Maria di Cattelan. No, dico, che ci fa Cattelan in una sala che si chiama "Dopo l'impressionismo"? Sospensione dell'incredulità, perché lì di fianco trovo un Mondrian inedito e in ottima forma.

Ecco, sapevo che non avrei retto più di un'ora. Mi trascino fuori dopo un'ora e un quarto sfinita. Consumata. Respiro. Datemi una secchiata in faccia di Real Life, please.

(tutto questo è ovviamente il frutto della seconda spedizione punitiva alla Tate Modern, come avevi già capito)

22 gennaio 2009

Hai mai camminato dentro un'opera di fantasia?

Entrare allo Shunt richiede la sospensione dell'incredulità.

Una volta mi sono trovata a camminare come Gulliver in una città fatta di casine e palazzi che mi arrivavano al ginocchio. Un'altra volta ho visto gente improvvisare un concerto in una mansarda. Una terza volta sono entrata in un intricato roseto. Ieri sera, per dire, ho visto la Madonna, con tanto di aureola celeste e cuore rosso illuminato.

E no, non mi faccio di acidi, anche se potrei raccontare di aver visto un carillon grande come una stanza fatto suonare da vecchie singer. Oppure di aver guardato su un muro un racconto di Edgar Allan Poe. Figurine di cartoncino che si rincorrono davanti a una luce fissa. Veder scendere dal soffitto due trapeziste o passare in una stanza con quadri fotografici o attraversare una sala con due mega hula hop illuminati da luce blu o rossa con dentro figure umane che si contorcono ormai è la cosa più normale che abbia fatto.

Sarà perché entri direttamente dalla metro. Sarà perché devi attraversare cripte buie, e nicchie, e gente che sussurra, e stanze con vecchi sedili di vecchi cinema e un telone pronto a illuminarsi prima di arrivare a una specie di salone principale. O forse sarà perché così immerso nel buio a un certo punto puoi sentire un pianoforte che suona in lontananza, e forse è suggestione, o forse è solo qualcuno che si è messo a improvvisare a uno dei vecchi pianoforti a coda disseminati tra le sale. Fattostà che se decidi di entrare allo Shunt devi mettere in conto la sospensione dell'incredulità. Davvero.

19 gennaio 2009

New year's resolutions/3: zenicizzamento

Ho iniziato a fumare alla fine del primo anno di università. Il che significa che, superate le pericolose tentazioni dell'adolescenza, non è mai troppo tardi per fare una cazzata. I primi anni ho mantenuto un livello più che accettabile, sotto stress da esame arrivavo a fumare ben 2 sigarette al giorno, con la palestra era impossibile iniettare più nicotina nell'organismo senza rischiare che le mie allieve finissero una lezione e io no. Poi le ore settimanali in palestra sono diminuite, così come le sigarette rimanenti nel pacchetto a fine giornata.

In una fase particolarmente rigida per la mia psiche (e le sigarette a un terzo del costo) la situazione è precipitata. Al rientro in Italia, fumavo praticamente un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno. La media è in seguito scesa nei mesi, assestandosi sulle poco meno di venti, altalenando periodi di disinteresse a periodi di "no no no così non va".

Ciò che rende più difficile (o più facile?) il mio rapporto col tabacco è che a me fumare piace, odio l'odore di fumo che impregna i vestiti e le dita, ma mi piace il sapore delle mie sigarette. Una contraddizione inestricabile. La sigaretta è stato il letimotiv che ha collegato vite diverse in contesti diversi.

Sono a Londra da dieci giorni. Qui le sigarette viaggiano sui sei pound a pacchetto e io non ho ancora un lavoro. Questo lo sapevo prima di partire. Ho deciso che il mio arrivo avrebbe coinciso con l'eliminazione del superfluo, per quanto possibile, dunque pochi vestiti, pochi libri, pochi oggetti personali. Poche sigarette.

Disabituo lentamente il mio fisico alla necessità di nicotina, non elimino il vizio, ma quello che non ha senso. Venerdì scorso ho fissato un obiettivo: una media di cinque sigarette al giorno. Qualche volta sono arrivata a quattro, o a tre. Una volta a sette, ma non ho più intenzione di farlo. L'obiettivo principale non è tanto (per ora) smettere di fumare, ma eliminare pian piano le cose fatte per abitudine e dare più significato ai gesti. E parto da quello fin troppo familiare di sfregare il pollice su una ghiera di metallo.

18 gennaio 2009

New year's resolutions/2: mens sana in corpore sano

Ce l'ha con la mia coda di paglia, lo so. Tra una settimana cominceranno gli ads di Google. Quando tra due settimane la schermata iniziale del mio pc si tramuterà in: LO VUOI MUOVERE QUELL'ENORME CUXXNE SI O NOOO? capirò che davvero non posso più aspettare.

(clicca sull'immagine per leggere cosa mi sta intimando quel cartellone)

16 gennaio 2009

Un'ora alla volta, per favore

Un'ora. Un'ora tra tele, materiali, soffitti alti, oggetti a tre dimensioni, muri candidi. Un'ora di ispirazione, un'ora perché è così che si fanno le cose accuratamente, ma senza lasciarsi sopraffare, senza lasciarsi confondere, permettendo alle sensazioni di fluire e sedimentare, senza che siano costrette a lasciare frettolosamente spazio a tutto il resto. Un'ora perché è il tempo che serve per costruire una curva emotiva, e non più di un'ora, perché smettere quando sei senza controllo è più difficile, perché la tua mente si stanca e non si accorge di essere stanca. Un'ora è quella che mi sono presa ieri per fare un giro tra i Pollock e i Picasso, tra un Dalì e un De Chirico, al terzo piano della Tate Modern. Un piano alla volta, ho deciso. Un'ora alla volta. Voglio assorbire tutto.

13 gennaio 2009

New year's resolutions/1: imparare a usare il microonde

Anno nuovo, vita nuova. Di' la verità, quante volte ci hai pensato, tra buoni propositi e cambiamenti effettivi? Io ho dovuto giocoforza fare delle scelte, d'altra parte se tendi a rimandare le decisioni e le decisioni scelgono te, non puoi che apprezzare e cercare di dimostrare al fato che puntando il dito verso di te ha fatto la scelta più saggia.

Così eccomi qui, cercando di controllare l'umore a dispetto di un tempo atmosferico che fa delle mie giornate degli altalenanti alti e bassi. Altra fase ingurgitante della mia vita, piena di cose rimandate, notizie non lette, cibi non mangiati e nuove abitudini da far accettare all'organismo.

Per prima cosa, ho deciso che quello strano aggeggio che c'è in cucina e che cuoce in poco tempo non può essere usato solo per scaldare l'acqua e scongelare. Diamine, con la metà di quello che l'hai pagato ti ci usciva un bollitore coi contropacchi, quindi è giusto che l'attrezzo ti consenta perlomeno di recuperare l'investimento. Primo buon proposito per l'anno nuovo, dunque, imparare a usare il microonde.

A questo punto, posso condividere con te il primo risultato. Un risultato per cui bastano dieci minuti (e se tra le tue new year's resolutions esiste un proposito di svegliarti dieci minuti prima la mattina, sei a metà dell'opera), un uovo, un po' di burro, un po' di zucchero e un po' di farina. Ah, e un microonde, ovviamente. Ho sperimentato per te, e oggi ti propongo di fare da te i tuoi biscotti per la colazione.

Fai così: svegliati un quarto d'ora prima, vai in cucina con occhio cisposo, metti 75 grammi di burro in un pentolino e accendi il fuoco bassissimo. Ora prendi una ciotola, mettici dentro 150 grammi di farina, 75 grammi di zucchero e un uovo. Mescola, togli dal fuoco il burro che ormai si sarà sciolto, mettici anche quello e impasta per bene, prima col cucchiaio e poi con le tue manine. Ci metterai tra i 5 e i 10 minuti, a seconda di quanto sei sveglio appena metti giù i piedi dal letto. Ora fai del tuo impasto palline grandi come noci, schiacciale tra i palmi, metti quello che ne risulta su un piatto piano infarinato e metti il piatto in microonde, a potenza media, per 5 minuti.

Mentre aspetti i tuoi primi biscotti hai il tempo per prepararti il caffè, o se ti senti più british, il tè. Quando il tuo microonde si spegne da solo, togli i biscotti dal piatto e lasciali asciugare un attimo, ovvero, il tempo per metterti qualcosa addosso e domare la zazzera che hai in testa. Secondo i miei calcoli, dovrebbe esserti uscito impasto sufficiente per una seconda infornata, che fortunosamente incastrerai a tetris in questo preciso istante, così hai anche il tempo di infilare il tuo pc e l'alimentatore nella borsa (oppure mettila in frigo, e spera che quando torni sia ancora utilizzabile. Fallo a tuo rischio e pericolo, che io non ho mica provato). A questo punto sei pronto per la tua colazione. Sarai senz'altro in ritardo, quindi ti consiglio di mangiare i biscotti in piedi, mentre ti infili il cappotto. Per il caffè, o il tè, una lunga sorsata e via. Ricordati le chiavi di casa (eventualmente quelle della macchina) e copriti bene, che fuori fa freddo.

Se non ti senti pronto per sperimentare il tutto a occhi ancora chiusi, sii maratoneta dentro: inizia ad allenarti prima.