La colazione al bar
Se c’è una cosa che di tanto in tanto mi dà soddisfazione, quella è la colazione al bar.
Non mi capita spesso, forse è per quello che ci tengo tanto. Fatto sta che ieri mattina ho scelto un bar praticamente vuoto (accanto a 3 locali strafighi c'è almeno un locale dall'aria sfigata e dove il caffè ha l'aria di costare pericolosamente meno di 3 euro: ecco, quelli sono i miei posti preferiti) e mi ci sono infilata per godermi qualche minuto di tranquillità. Il piccolo dramma della colazione fuori casa è lo zucchero a velo delle paste. Quelle normali sono ricoperte da almeno due etti di manto biancastro che mi danno subito l'idea delle calorie che sto per ingerire. Quando addento un boccone, mi spezzo la schiena per cercare di non imbiancarmi la giacca. Normalmente ci riesco, tranne uscire dal locale e alla prima vetrina accorgermi di avere un bel paio di baffi bianchi. Nel bar, dicevo, un paio di gestori anziani hanno contribuito a rendere il tutto così perfetto da accostare la colazione ad un piccolo rituale. Sono uscita soddisfatta dal baretto e mi sono avviata verso l'ufficio. Girato l'angolo, oltre al negozio che già conoscete, c'è anche un locale che definire bar è semplicemente blasfemo. E' un loft di cinque chilometri quadrati con vetrate ovunque (anche nei bagni, suppongo), con torte in vetrina da 50 euri il chilo, tutto contrassegnato dal simbolo storico del proprietario, anche i cappotti dei clienti. I tavoli sono disposti lungo le vetrine, la gente ci si ammassa, buttata su sgabelli di due metri. L'effetto è curioso: le persone sono tutte ben disposte lungo la vetrata, le signore sono truccate e ingioiellate, i signori sono rigorosamente in giacca e cravatta. Tutti sorridono. Sui tavoli, accanto alla colazione, è buona norma tenere almeno due buste immacolate di carta, una di Armani e una di Hermès. Ogni giorno, ad ogni ora. Ogni volta che passo davanti a questo bar mi dico: più tardi entro e chiedo al commesso di farmi provare quella giacca color cammello che c'è in vetrina.